L’intervento di Paola Roncarati al CDS Cultura.
Queste note rielaborano un mio intervento al convegno ‘Tra terra e acqua: progetti di rigenerazione del territorio’, organizzato dal CDS, in data 9 ottobre 2021, e scaturiscono da una preliminare convinzione: esiste un nesso assai stretto tra territori e topofilia, l’amore per i luoghi che nutre chi, da generazioni, li abita o li ha abitati. La topofilia alimenta un forte senso di appartenenza e dà un preciso carattere a quel legame. Un simile nesso è parte integrante di un retaggio culturale che tende ad essere trascurato, ma è un fattore sociologico di grande rilievo. I luoghi, tutti, emanano messaggi che la mente degli umani coglie, attraverso apparati ricettori oggi per lo più disorientati (talvolta … quasi sempre… per calcolo altrui). Occorre, invece, dare spazio a quell’insieme di sentimenti, studiati anche dagli psicologi, che a tratti possono addirittura apparire ostinati e ‘retrogradi’.
Le mie considerazioni sono il portato di una visione culturale di origine umanistica; sensibile, non di meno, a tematiche ambientali. Da molti anni rivolgo la mia attenzione a giardini, paesaggi e ‘luoghi’, grazie sia all’Associazione di cui faccio parte, riconosciuta di ‘protezione ambientale’, sia anche (direi soprattutto) ai corsi annuali organizzati a Padova dal Gruppo del Giardino storico, che opera presso la Facoltà di Biologia dell’Università Patavina; corsi avviati -con acuta sensibilità- ben prima del 20 ottobre del 2000, data in cui a Firenze fu approvata la Convenzione Europea per la tutela del paesaggio. Si è insistito sulle differenze, terminologiche ed anche epistemologiche, tra paesaggio, ambiente e territorio, tanto che al termine ‘paesaggio’, assai abusato, si è preferito per lungo tempo la parola ‘luogo’ (in Regione mi è capitato di sentir parlare di ‘paesaggezza’; l’espressione vuol forse fondere il binomio ‘paesaggio’ e ‘saggezza’? Sarebbe auspicabile! Per il momento, però, è solo un originale calembour).
Il pieno inserimento di ogni membro di una comunità nel tessuto sociale e nelle relazioni intrecciate sul territorio è frutto di complesse abitudini di vita e di pensieri quotidiani, tra loro strettamente connessi. Chi è membro di una comunità che abita un territorio compie un quotidiano esercizio: il pensare guardando; i luoghi sono, del resto, anche paesaggi mentali e geografia mentale. E la radice del termine idea, frutto del pensiero umano, va cercata nel verbo latino video: ho visto, dunque so! I luoghi abitati di un Delta come quello ferrarese non sono vedutismo, come potrebbe essere per i noti capricci fluviali,il seguire e riprodurre artificialmente le anse dei fiumi. Il fine è solo di non sconvolgere un territorio fragile, come quello deltizio, salvando un ‘ambiente’ abitato con fatica.
Da Marcel Proust, dalla sua ricerca di tempi e spazi perduti, ci sono venuti i richiami più sentiti al saper-vedere, al continuo mutare i punti di osservazione, attraverso i quali va interpretato un territorio abitato. Infatti, gli ambienti e i paesaggifiniscono per essere essi stessi personaggi nella narrazione di quell’Autore. Oggi, se non ci si può limitare ad effettuare la fascinosa ricerca di spazi e tempi perduti, è divenuto un dovere pressante per l’uomo saper governare i luoghi con il quotidiano agire; specialmente dopo l’esplosione del problema ecologico. Il successo mediatico riscosso da Greta Thunberg, indicando ai potenti del Pianeta Terra che il Re è nudo, ci dice che l’ecologia non è solo un problema alla moda, ma un’esigenza pratica, vitale. Vanno combattuti obbrobri territoriali come il così detto land grabbing: l’acquisto di vaste estensioni geografiche ad opera di privati, per produrre beni di consumo alimentare iniquamente distribuiti e, sovente, sperperati, o generare biocarburanti. Modificare in radice l’assetto economico e politico, non solo di zone agricole, ma di ordinamenti nazionali, talvolta anche internazionali, mette a rischio la sopravvivenza di interi popoli del Globo.
Le considerazioni finora esposte vanno inquadrate in questa cornice: credo che sia necessario mettere in rilievo quella ‘selva oscura’ com’è oggi definibile la ‘cultura’, dal momento in cui dilagano assetti sociali che spettacolarizzano ogni cosa; soprattutto la politica. Temo sempre più che avanzi una mera ‘ignoranza’, nel senso letterale del termine, cioè una non conoscenza che si esprime con lo spregio della conoscenza, camuffata più o meno abilmente da ‘spettacolo culturale’. Quelli che erano i maestri del pensiero (che molti di noi ascoltavano con la deferenza dovuta) oggi si sono ritirati in un silenzio che meriterebbe seri interrogativi; invece, si inneggia quasi con soddisfazione a questa ‘sparizione’. Nell’era del karaoke della politica, della storia, si è persa l’antica virtù dei saggi, la mitezza! Di fronte a masse crescenti (corteggiate dalla politica) che rifiutano scienza e razionalità e sbandierano il ‘contro/sapere’, al popolo si è sostituito il cosiddetto populismo e al metodo del dialogo e del civile confronto si è sostituito il vaniloquio personalistico: chi ormai non scrive le proprie ‘ineludibili’ memorie, ben intrise di filosofie last minute, soprattutto se ha acquisito una certa popolarità mediatica? Si cercano soltanto conferme di cose note: il vero è insito in ciò che già si sa (e in ambiti, peraltro, sempre più ristretti).
Tutto ciò spiega meglio il fenomeno che accademici statunitensi hanno denominato ‘autostima dell’incompetenza’. Chi vive, deprivato di ogni percezione critica, nella logica dei social e mira a risposte rapide, non meditate, prive di riflessioni, è animato solo dal gusto di scontri verbali e di trivializzazione dei messaggi lanciati. Del resto, la logica che impera nel mondo televisivo è quella di incrementare l’audience, avere maggior seguito, attraverso animatori che siano capaci di divulgare spettacoli, mettendo in scena il linguaggio dei corpi, dei gesti, condizionando gli spettatori che, da cittadini da informare e intrattenere, sono stati trasformati in utenti e clienti da fidelizzare, magari attraverso degli scontri verbali artificiosamente creati, se ed in quanto ciò abbia un utile ritorno economico. Che prevale, sempre.
Il risultato finale è che dilaga un’epidemia dell’ignoranza, capace di minare la democrazia: il demos, il popolo sovrano deve tornare all’ispirazione ideale di demiurghi che elaborino cultura e, restando a mezza via tra riformatori ed educatori, creino dei nuovi saperi senza ‘imbrodarsi’ nello spettacolo, svolgendo il ruolo di ideatori di nuovi modelli, alternativi a quelli basati sul mero profitto personale e più propensi al profittevole; da intendersi come assetti capaci di arricchire culturalmente e moralmente. È solo così che si può ipotizzare la ‘nuova etica’, da molti sbandierata come titolo di nobiltà, e l’uomo di cultura, individuando con razionalità i bisogni sociali da soddisfare, può aiutare ad individuare nuovi modelli produttivi, ponendosi a metà strada tra l’utopista, il riformatore e l’educatore per trovare le risposte ai bisogni di società sempre più complesse, modellandole su esempi anche stranieri (penso all’auspicata ‘democrazia di prossimità’, cui miravano alcune realtà del Sud America). Non si avverte il bisogno di gratuite prediche moraleggianti, ma di progetti capaci di evitare pericolose esclusioni sociali. In questi ultimi anni, è l’epidemia dell’ignoranza la mina più pericolosa per la democrazia, nella consapevolezza che la necessaria uguaglianza dei punti di partenza del sapere non significhi automaticamente uguaglianza dei punti di arrivo, con una mercificazione dell’istruzione, anche universitaria, che spesso ha di mira un obiettivo: lo studente deve diventare solo un ‘cliente’ da soddisfare appagandone l’arroganza, più che stimolarne una sete di sapere e di affermarsi con le sue capacità, in una ‘competizione’ ora malata, che favorisce ancora chi è in grado di pagare. Sicché, la società viene privata di un lievito essenziale: alimentare la capacità di pensiero critico idonea a generare un mercato di idee, così da rendere molto meno asfittica la proposta politica ed economica, atteso che essa ormai rivela, alla luce del sole, la propria miserrima miseria.
Diventano preziose le seguenti parole di Massimo Adinolfi: «Prima di mettere nelle mani del popolo un potere sovrano, costituente, procuriamoci un popolo istruito, educato, acculturato, competente». E profetiche appaiono le parole scritte, ben due secoli or sono, da Victor Hugo: «La Camera, direi quasi il Trono, deve essere l’ultimo gradino di una scala di cui il primo gradino è la scuola». A quanto hanno detto le due personalità, con parole risalenti anche a due secoli or sono, non va aggiunto alcun commento.
L’ignoranza è anche la peggiore nemica della natura, quindi dell’umanità! Bisogna essere convinti, perciò, che l’istruzione è l’unica via percorribile per superare l’assetto sociale di questo nostro Mondo diseguale, analfabeta, non informato o tendenziosamente informato e, pertanto, indotto a praticare un consumismo compulsivo che porta al baratro del suicidio del Pianeta. E non si può non ricordare quanto ha detto Papa Francesco nell’Enciclica Laudato sí. Sulla cura della Casa comune, (Libreria Editrice Vaticana, 2015) e nella coeva intervista dal titolo Questa economia uccide, (Milano, Piemme Edizioni, 2015): sono ottimi antidoti all’impietosa invivibilità del Pianeta. In quest’ottica, i programmi educativi, specialmente nelle scuole, dovrebbero puntare alla formazione di cittadini che coltivino diversi (soprattutto nuovi) stili di vita e diventino anche moderni paesaggisti, informati sulle diverse realtà geofisiche dei loro luoghi abitati, capaci di svolgere un ruolo attivo, per un nomos nell’ethos che crei spazi di speranza ed educhi ognuno a vedere, non solo il proprio, ma l’intero mondo prezioso come un giardino, consapevoli che la natura è assai compromessa, se non addirittura in buona parte persa, e che è assai problematico proiettare speranze per il futuro, se non a parole. La consapevolezza è un esercizio antiretorico. Tale auspicata istruzione rigeneratrice dell’equo rapporto tra uomo e natura non deve essere, però, fornitrice di competenze settoriali, chiuse in saperi specifici nei quali ognuno è in grado di parlare solo il ‘proprio’ linguaggio, nell’ambito della propria aiuola, dimenticando che tutte le competenze debbono poi essere concatenate e ricondotte ad una ‘conoscenza condivisa’. La colpa degli uomini del sapere in passato è stata quella dell’autoreferenzialità, della chiusura nei ‘salotti buoni’ che contano a livello del potere, svendendo la propria cultura al migliore offerente politico. Essi oggi debbono reinventare il proprio ruolo e aiutare a svuotare gli scaffali di un sapere troppo mercificato.
Il ruolo del saggio non è solo quello di ‘indignarsi’ di fronte alle pieghe spietate che ha assunto il potere finanziario che domina l’umanità, ma è quello d’individuare la via per riassettare il ‘mercato globale’, sicché ai tanti poveri di casa nostra non debbano aggiungersi i tanti poveri delle case altrui e gli anziani non siano considerati ormai parti inerti, settori improduttivi e, pertanto, un peso morto per la società; né i giovani debbano essere considerati meri tappabuchi dei piani bassi dell’economia del mercato globale. Se la parola d’ordine di quanti puntano sulla solidarietà come valore fondante di ogni assetto sociale è “comminiamo insieme”, essa non può non essere condivisa. A patto però che si segua l’insegnamento di Thomas Mann: “camminiamo su orme”, su quelle orme tracciate dagli antenati, che non sono solo dei morti sepolti, ma coloro che ci hanno insegnato a camminare, ricostruendo il nostro passato prendendoci il tempo necessario per pensare ad essi con rispetto.
Di grande dignità sono le orme sulle quali camminano uomini e donne di Massenzatica, il cui Consorzio di proprietà terriere legate ad un mondo rurale e silvano/pastorale, ricche di storia, è quindi depositario di ‘beni storici’ idonei a diventare ‘unità paesaggistiche’. E ciò spiega la peculiarità del CUM o Consorzio degli Uomini di Massenzatica, basato su secolari istituti giuridici di conduzione di ampi territori in forma comune, al quale è stato conferito un premio dal Mibact nel 2019 ed anche un significativo riconoscimento dall’Europa, per la condotta socio/politico/economica che porta avanti il Consorzio stesso. La simbiosi armonica di tradizioni sociali, di esigenze della produzione, di salvaguardia dei valori di comunità stanziata su un territorio realizza l’arte della memoria, una ars memoriae che non si fonda solo sul consumismo, ma esalta perfino il paesaggio in una peculiare accezione di bellezza non spenta nel conformismo del ‘consumo di territorio’ cinico e ondivago. Va recuperato il racconto, la parola che scava nel profondo dell’intimo umano, riportando in superficie la essenza stessa dell’essere qui, di tutti. Quanti saranno nel prossimo futuro i migranti economici e non solo quelli indotti dai cambiamenti climatici? Il fine (quello vero) della lotta per accaparrarsi la terra è sempre più chiaro: vanno creati assetti geopolitici del tutto nuovi che cancellino le tracce più inique del passato. Ma sulle scelte del futuro c’è l’esercizio cinico del generare paure di massa (assai produttive per esseri senza scrupoli) e insicurezze individuali, per far fronte alle quali non bastano politiche di ‘protezionismo economico’ e di ‘sovranismo’. Si rischia di restare vittime del magico canto delle sirene se si agisce solo in base a meri calcoli economici, senza effettuare precisi calcoli logici circa le conseguenze di tutte le proprie scelte, secondo l’etica della responsabilità alla quale si richiama la filosofia più attenta ai conflitti geopolitici, sociali e generazionali, oggi in atto. È questo, a mio parere, il vero senso del ‘camminare insieme’ oggi troppo sbandierato per l’affascinante assonanza ‘fonica’…