Martedì 10 giugno 2025 si è tenuto l’evento di chiusura delle attività primaverili nello splendido Monastero di Sant’Antonio in Polesine.
La Madre Badessa e le consorelle hanno gentilmente consentito al Garden Club Ferrara
l’accesso diretto al secondo Chiostro del Monastero che si affaccia su un ‘secondo’ giardino, recentemente restaurato.
In questo prezioso contesto, socie e soci hanno ascoltato il Duo Morrighan che ha suonato musica contemporanea tratta da colonne sonore di famosi film.
Gli allestimenti floreali sono stati preparati dalle socie che stanno seguendo il secondo corso di decorazione floreale occidentale.
Il pomeriggio si è concluso con un brindisi nell’antico refettorio, nell’attesa di ritrovarci in autunno per tante altre stimolanti iniziative.
Di seguito il testo dell’introduzione della presidente Paola Roncarati:
“Ringraziamo madre Maria Ilaria (e suor Maria Grazia, la prima a suggerirmi questa opportunità) per averci permesso di entrare e conoscere questa parte del Monastero pur con lavori di restauro non ultimati, un Monastero la cui storia è ricca, quanto accidentata, perché questa struttura che ci ospita è stata separata dalla parte medievale con chiesa, refettorio, celle e primo chiostro, orti e giardini per diventare dal Settecento demanio dello Stato e poi successivamente proprietà comunale. Ottenuti (ufficialmente solo lo scorso anno) i permessi di riaccorpamento della parte in questione al monastero storico, essa è ora oggetto di ingenti restauri, volti al recupero del ‘secondo chiostro’ con il suo giardino, un giardino che il Garden Club in autunno correderà di piante ai quattro angoli. E, a tal proposito, ci è stato chiesto di mettere a dimora piante della famiglia delle Hydrangeaceae.
Il glorioso monastero che ci ospita, da sette secoli resiste ad ogni tipo di ingiuria storica, è stato fondato da Beatrice II d’Este, ora venerata come Beata, la cui pietra tombale qui è ospitata dall’anno della sua morte, il 1262. Questa pietra di marmo bianco che dal 1530 trasuda acqua ogni anno, durante l’inverno, e tale fenomeno viene da allora percepito come un segno della sua presenza soprannaturale a difesa di questo luogo da lei fondato nel 1257.
Beatrice era figlia del signore di Ferrara Azzo VII. Era nata nel 1226, nel Veneto tra Este e Calaone, nell’anno della morte della zia, la prima Beata Beatrice d’Este, la bimba ne ereditò il nome. Ferrara era ancora sotto il dominio dei Salinguerra, una famiglia ghibellina, protetta dall’imperatore. Nel 1240 Azzo VII caccia i Salinguerra e prende dimora in un palazzo marchionale nella contrada di san Paolo. Beatrice e i suoi fratelli perdettero ben presto la madre, ma la matrigna, Mabilia dei Pallavicino, li crebbe con amore in un ambiente cortese insieme a poeti provenzali e ai dotti della Chiesa che, in quel periodo, si occupavano della riforma ecclesiastica, seguendo il verbo dei Santi Francesco e Domenico. Quindi, la prole degli Este ebbe un’educazione volta a promuovere la beneficenza versi i poveri; i giovani marchesi sapevano preparare infusi ed estratti con erbe medicinali per curare le malattie dei bisognosi.
Beatrice era bionda, bellissima, con folti capelli in parte raccolti e in parte sparsi sulle spalle (come si conveniva alle giovani nubili) ed ovviamente destinata ad un matrimonio di rango; venne promessa a Galeazzo un signorotto vicentino parente del Duca di Milano. Beatrice, imbarcata sul Po con grande seguito alla volta di Milano, durante il viaggio è raggiunta dalla notizia della morte in battaglia del futuro sposo. Non si perde d’animo, fa ritorno a Ferrara e, a quel punto, dà spazio alla sua antica aspirazione di dedicarsi a Dio; un desiderio che non aveva osato comunicare al padre, ma ora, sposa mancata, ottenuto da questi il permesso, si ritira a vivere a San Lazzaro, su un’isoletta creata dal Po di Volano, dove, accanto ad una piccola residenza degli Este erano stati eretti una chiesa ed un ospizio o ospedale. Dedicatasi all’assistenza ai malati, pronuncia la professione di fede nel 1254. Ha 28 anni.
Inizia una vita di povertà frequentando un convento eretto presso l’isola di Santo Stefano, a Focomorto (dov’era avvenuta una rotta). In poco tempo, sul suo esempio la comunità cresce fino a raggiungere la presenza di 12 monache, che seguivano la regola di San Benedetto, regola promulgata da poco, nel 1255. Beatrice però non fu mai badessa, la carriera era contraria ai suoi principi. La Comunità benedettina fu sempre fortemente cristocentrica (nulla era più importante in vita dell’amore per Cristo; quaerere Deum, la loro ricerca spirituale ha il suo fulcro in Cristo, Cristo presente nella Parola e nella Comunità, in modo sobrio, insieme al rigore della regola e alla povertà. Preghiera, lavoro e silenzio supportano la vita della comunità che si trasferirà nel Monastero di Sant’Antonio in Polesine nel 1257, perché il Monastero di Santo Stefano era continuamento soggetto alle rotte del Po! Questa isola venne poi inclusa nella città di Ferrara dall’addizione di Borso nel 1451, che aggrega il polesine di Sant’Antonio.
Isabella II muore il 18 gennaio 1262, a 36 anni. La città accorse a renderle omaggio e le monache distribuirono in fialette l’acqua servita al lavacro del suo corpo e, verificatisi effetti miracolosi, iniziò la canonizzazione e il culto della Beata. Ogni anno il corpo incorrotto veniva esposto e lavato, con distribuzione dell’acqua e ciò avvenne fino al XVI secolo. Nel 1512, il corpo si disciolse, le ossa vennero raccolte in un’urna e cessarono i lavaggi. Ma l’urna venne collocata sopra una pietra su un altare, mentre le ossa di una mano collocate in una teca d’argento. E dalla pietra -divenuta ‘santa’- ogni anno piovono gocce d’acqua, considerate le ‘lacrime della Beata’ che mantengono viva la fede dei devoti.
Dopo la distruzione dell’impraticabile Monastero di Santo Stefano di Focomorto, l’Abbazia di sant’Antonio in Polesine venne legata a quelle di San Silvestro e San Bartolo, tutte dipendenti dall’Abbazia di Pomposa, secondo l’architettura monastica benedettina (chiostri, refettori distanti dalla chiesa, cortili delimitati da portici ecc.). Sono simili gli apparati decorativi con l’inserimento di ciotole sulla facciata o sui fianchi (a Sant’Antonio ne abbiamo nove, una ciotola sola sulla facciata). Di pomposiano vi è il nartece, l’atrio da cui si entra in chiesa ed altre decorazioni d’influenza ravennate o bizantina. Dal XV secolo decorazioni bizantine si sovrappongono agli affreschi delle cappelle absidali
Dal XV secolo il monastero, con spazi diventati insufficienti, dovette raddoppiare il dormitorio, con nuove celle laterali a contorno del vasto salone che era stato il dormitorio comune delle monache, detto ‘il dormitorio piccolo’ con soffitto ligneo e medaglioni collegati da festoni di verdura (mele e foglie di fico si riferiscono al peccato originale, le rose simboleggiano la purezza della Vergine (se bianche e rosa) o il sacrificio di Cristo (se rosse). La pera, antico simbolo di Venere, richiama la dolcezza della Vergine, mentre la nocciola rappresenta la salvezza).
Tra i secoli XVI e XVII, il Monastero raggiunse l’apice dell’affollamento, sì da indurre ad ampliare gli spazi interni. Nel 1629 sorsero nuove costruzioni ad est per ospitare sia educande che novizie (si raggiunse anche il numero di cento presenze) e si aggiunsero refettori, cucine, stallatici e forno. Sul finire del XVIII secolo, i francesi requisirono le opere d’arte e parte del monastero, che però riuscì a salvare la propria parte storica, perché il convento fu riconosciuto come reclusorio, cioè, che forniva ospitalità alle monache allontanate da conventi soppressi. Dopo l’Unità d’Italia, nel 1866, si salvò da ulteriori leggi soppressive, finché la parte aggiunta nel XVII secolo passò, nel 1910, al Demanio Militare e, quindi, trasformata in caserma per i Lancieri d’Aosta, con adeguamento dei locali ed abbattimento di portali per consentire l’accesso ai cavalieri; il che produsse gravi danni architettonici. Le suore innalzano un muro per separarsi dai soldati e tutelare la propria incolumità. Nelle difficili condizioni descritte, il Monastero e le monache che vi si trovavano rinchiuse si trascinarono per buona parte del Novecento. Dal Demanio militare la parte requisita passò al Comune che, in tempi recenti, fece dono al Convento degli antichi spazi che richiedono ingenti restauri i quali, iniziati da tempo e velocizzati recentemente con i proventi del progetto ‘Ducato Estense’, cioè una somma destinata a Ferrara e a Modena, hanno visto, il 9 agosto del 2024, per volere delle monache sulla tomba della beata Beatrice II d’Este, protettrice del Monastero, una sottoscrizione di un atto che sancisce la definitiva acquisizione di tutta l’area dell’antico Convento.
L’intento delle monache oggi presenti è interessante: recuperare tutto il complesso ripristinando l’antica area conventuale e gli antichi confini. La finalità è di promuovere la vita e la conoscenza della regola monastica benedettina nella sua storia, come bene culturale, promuovendo saperi dimenticati, l’accoglienza di pellegrini e di studiosi di arte conventuale, di canti gregoriani (in cui da sempre questa comunità eccelle), con spazi adeguati all’ospitalità (sono ora disponibili circa venti stanze doppie), per convegni e relazioni internazionali. I fondi del PNRR sono terminati ed i lavori procedono per lo più grazie a lasciti testamentari che, però, arrivano lentamente, anche se -ama ripetere Madre Maria Ilaria- non cessano mai, perché la beata Beatrice d’Este provvede a che il suo monastero viva e si proietti sempre nel futuro.
Noi oggi siamo ospitati non nel chiostro trecentesco, ambiente privato delle monache (a differenza delle suore fanno voti solenni ad ordini religiosi antichi), in questo momento in ritiro spirituale, ma in quello seicentesco, nella sede della caserma, ora di nuovo Monastero (luogo di monaci o monache di clausura e di vita contemplativa, di preghiera, di lavoro e meditazione, spesso isolato dalla città). E va ricordato che il termine ‘monastero’ deriva dal greco antico monos, solo, e richiama gli ordini dei Benedettini, dei Cistercensi e dei Carmelitani. Mentre il termine Convento deriva dal latino conventus -riunione-, ovvero luogo abitato da frati o suore, associato ad ordini mendicanti come quello di francescani o dei domenicani, che praticavano la predicazione, l’assistenza sociale, animati da uno spirito di missione. I frati che abitano il convento hanno una vita più attiva, in un luogo dedito all’attività pastorale, aperto al dialogo col centro abitato di cui fanno parte. Sant’Antonio in Polesine, che appare sia ‘monastero’ che ‘convento’ perché queste sorelle sono attivissime nell’accoglienza, nell’assistenza ai poveri e nel dialogo con la città, aspetto di cui noi abbiamo approfittato ed ecco perché oggi ci è consentito di essere qui”.